I presìdi sono progetti capitanati da Slow Food finalizzati a sostenere e incentivare le piccole produzioni artigianali di altissima qualità così da assicurare un avvenire a contadini, pastori, pescatori e artigiani che mantengono vivo l’antico sapere sulle colture e sulle tradizioni per i loro prodotti. I presìdi sono sostenuti dalla Fondazione Slow Food per la Biodiversità (per un’agricoltura sostenibile e per il rispetto dell’ambiente, delle tradizioni e dell’identità culturale dei popoli).

In Maremma sono stati individuati vari prodotti che vi andiamo qui a far conoscere.

Biscotto salato di Roccalbegna

Tipologia: Pane e prodotti da forno

Le origini di questo biscotto dalla forma simile a un otto, intrecciata ad abbraccio e chiusa nelle tre giunture, si perdono nel Medioevo. La produzione è sempre stata familiare e la ricetta custodita gelosamente dalle donne del paese di Roccalbegna e tramandata di madre in figlia. Fino a qualche decennio fa, in ogni casa c’era un mestolo dedicato all’impasto dei biscotti, che passava di generazione in generazione.
La ricetta è legata alle materie prime disponibili localmente (farina, olio extravergine di oliva, semi di anice, vino bianco, sale) ed era legata alle occasioni speciali perché l’olio, ingrediente principale del biscotto, era molto prezioso.
I biscotti si conservavano e rimanevano fragranti a lungo: nelle settimane successive alla preparazione si usavano per la colazione o a fine pasto. Secondo diverse testimonianze orali, esisteva la consuetudine di contrassegnarli con chiavi e altri utensili, per poterli distinguere quando si portavano a cuocere nei due forni a legna del paese. 
La preparazione prevede di impastare farina, olio extravergine e sale e aggiungere l’anice messo a bagno nel vino bianco la sera precedente. L’impasto, leggermente lievitato, si spezza in porzioni di circa trecento grammi e poi si lavora e si intreccia a mano. Segue una bollitura leggera e la cottura nel forno. 
Il biscotto di Roccalbegna ha una superficie di colore dorato, lucida ma irregolare. L’aroma è caratterizzato dall’olio extravergine e dai sentori dell’anice, che donano anche persistenza in bocca.

Bottarga di Orbetello

Tipologia: Pesce, frutti di mare e derivati

A Orbetello l’arte di conservare il pesce è stata introdotta probabilmente dagli Spagnoli, che già nel Cinquecento affumicavano anguille e condivano i pesci con l’escabece, una salsa calda a base di aceto, rosmarino, aglio e peperone. E a Orbetello ancora oggi si prepara l’anguilla scavecciata e l’anguilla “sfumata” (affumicata). Anche la bottarga (dall’arabo botarikh, che significa uova di pesce salate) si produce da sempre. Ma fino a poco tempo fa si trattava di una produzione familiare: i cefali con le uova erano infatti venduti freschi in Sardegna.
Il cefalo (Mugil cephalus) infatti è un pesce che abbonda negli stagni salmastri della Sardegna ma anche nelle lagune tirreniche.
La bottarga si prepara estraendo con delicatezza le sacche ovariche del cefalo femmina (o, con risultati largamente inferiori, del tonno), mettendole sotto sale per qualche ora, pressandole e facendole essiccare. I sardi stagionano la bottarga anche per sei mesi, mentre i pescatori di Orbetello la considerano pronta dopo 15 giorni. Le uova salate si presentano come un blocco consistente ma non asciutto, di colore ambrato.
La bottarga di Orbetello è ottima consumata a fettine sottilissime, insaporita appena da un velo di olio extravergine e da un tocco di limone. Altrimenti vale sempre la ricetta degli spaghetti conditi da bottarga grattugiata, prezzemolo, aglio e poco peperoncino.

Stagionalità

La pesca del cefalo può essere effettuata tutto l’anno ma culmina nel periodo di agosto e settembre.

Palamita del mare di Toscana

Tipologia: Pesce, frutti di mare e derivati

Pesce “di passo”, la palamita appartiene alla famiglia dei tonni e degli sgombri, ai quali assomiglia nell’aspetto. Ha corpo allungato (può arrivare fino a 80 centimetri di lunghezza), fusiforme, bocca ampia e munita di numerosi denti affilati e taglienti, occhi tondi piuttosto piccoli, ed è facilmente riconoscibile per alcune striature nerastre che la attraversano obliquamente su fondo di colore blu elettrico. Viene pescata nel periodo che va dalla tarda primavera all’inizio dell’estate e ancora a fine settembre, più o meno quando raggiunge i cinque, sei chili di peso. La zona di pesca si estende a tutta l’area marina dell’Arcipelago Toscano, ma è più intensa in alcuni punti: uno di questi è Capo Enfola, nei pressi di Portoferraio, dove fino a qualche decennio fa esisteva una tonnara per la mattanza.
La palamita è un pesce generoso dalle mille possibilità, considerato a torto un parente povero del tonno. Le sue carni, dal sapore forte e con una leggera punta di acidità, possono essere cucinate in svariati modi: alla griglia, condite con erbe fini, olio, sale, oppure in umido, con pomodoro, prezzemolo, aglio, capperi, olive e peperoncino che qui all’Elba, chissà perché, si chiama “zenzero”. Ma il modo classico per gustare la palamita è sott’olio: si lessano i pesci più grandi dopo averli tagliati a filetti e si mettono sott’olio con foglie di alloro, pepe e l’immancabile “zenzero”. Il risultato sono filetti delicatissimi, simili a quelli del tonno.

Stagionalità

Questo pesce viene pescato nel periodo che va dalla tarda primavera all’inizio dell’estate (maggio-giugno) e successivamente nel periodo autunnale (ottobre-novembre). Una volta trasformato è reperibile tutto l’anno.

Pecorino a latte crudo della Maremma

Tipologia: Latticini e formaggi

Quattro fiumi dividono la Maremma grossetana in altrettante piane fertili: il Fiora, l’Ombrone , il Pecora e l’Albegna. Un territorio noto sin dal medioevo come area di pascolo e, a partire dal 1600, come terra di transumanza. Là sostavano stagionalmente le greggi che arrivavano dalle montagne appenniniche, dalle aree interne e dalla zona di Siena in particolare. Un fenomeno che ha dato origine all’istituzione della Dogana dei Paschi, di cui lo Stato di Siena si è servita sin dal tardo medioevo per esercitare un diretto controllo sui pascoli e ricavarne le tasse relative.
La stagionalità del pascolo e la scarsa presenza di insediamenti umani, almeno sino alla bonifica delle aree paludose in epoca fascista, non hanno favorito l’insediamento di attività di caseificazione stabili. Il latte delle greggi che svernavano in quest’area contribuiva alla produzione di pecorini eccellenti di altri luoghi, come Pienza e il Casentino. Soltanto nel ‘900 la Maremma è diventata il principale luogo di produzione di pecorino in Toscana.
Oggi le realtà produttive sono ancora numerose e molto diversificate, anche se la maggior parte degli allevatori e dei produttori di formaggio si concentra sulla produzione di Pecorino Toscano Dop.
Le razze allevate oggi non sono solo quelle autoctone, come la amiatina, ma anche quelle tradizionalmente importate negli anni della transumanza, come la sopravvissana, e con le migrazioni, come la sarda.
Il latte è lavorato direttamente in azienda e il pecorino che si ottiene ha formati e stagionature variabili: dai 20 giorni fino ai 180 giorni e oltre dello stagionato e del riserva. Questa grande variabilità è dovuta al fatto che non è mai esistito un disciplinare cui gli allevatori maremmani potessero fare riferimento, almeno sino all’istituzione della Dop Pecorino Toscano, estesa però a tutta la regione. Una spontaneità vagamente anarchica ha dettato le tipologie di questo formaggio, cosicché accanto a coloro che lavorano latte crudo e senza fermenti, vi sono produttori che pastorizzano e usano innesti industriali. Eppure la bontà dei pascoli e l’eccellenza del latte di queste greggi meriterebbe una riunificazione degli stili di lavorazione e l’uso esclusivo del latte crudo: e sarà questo l’obiettivo principale del Presidio.
 

Stagionalità

Tradizionalmente si produceva tra dicembre e giugno, ma oggi si fa quasi tutto l’anno, a esclusione dei mesi più caldi e dei periodi con scarsa disponibilità di latte.

Pesca tradizionale della laguna di Orbetello

Tipologia: Pesce, frutti di mare e derivati

Nella Laguna di Orbetello la pesca ha una lunga storia ed è un’attività fondamentale per l’economia dell’area; spigole, orate, cefali, anguille, calcinelli, mazzancolle, femminelle sono le specie più diffuse e i pescatori usano da sempre metodi tradizionali di cattura, come il lavoriero, il martavello e il tramaglio. Modernizzate nel tempo, queste tecniche mantengono le loro caratteristiche di sostenibilità: il pesce, infatti, arriva spontaneamente, secondo la stagionalità e le maree, senza l’uso di mangime esca.
Il lavoriero, uno sbarramento un tempo in legno e oggi meccanizzato, è posizionato in corrispondenza dei canali che permettono lo scambio di acqua tra la laguna e il mare aperto. La pesca al lavoriero approfitta dell’alta marea: l’ingresso dell’acqua dal mare in laguna attira i branchi di pesce verso lo sbarramento e li incanala in una serie di camere “degli inganni” che li conducono alla “cassa di cattura”, dove il pesce ancora vivo e in acqua viene selezionato per taglia e, a seconda dei casi, issato con le reti oppure rilasciato. In alcune stagioni, oltre all’alta marea, è l’istinto riproduttivo a spingere il pesce verso l’uscita dalla laguna. Gli esemplari più maturi sessualmente sono lasciati passare affinché raggiungano il mare della costa per riprodursi: di qui, i giovani esemplari, grazie alla bassa marea, potranno rientrare in laguna. Con il lavoriero si pescano tutte le specie ittiche della laguna così come con il tramaglio, rete da posta fissa costituita da tre strati di maglie, usato prevalentemente in estate e nei mesi di novembre, dicembre e gennaio.
I martavelli e le nasse invece sono più selettivi: posizionati all’interno della laguna, catturano solo anguille, feminelle (granchi invernali), mazzancolle e bavose. Nel periodo invernale i martavelli, dalla tipica rete a imbuto con camera finale, sono inseriti in “strutture di inganno” realizzate con reti, canne e pali. In estate sono inseriti in strutture meno complicate detti “crocioni” e possono essere spostati anche quotidianamente.
Anche la trasformazione del pesce ha una tradizione storica. Il dominio spagnolo di quest’area – tra il 1500 e il 1600 – ha lasciato due tecniche particolari, che affiancano le classiche affumicature e marinature: la sfumatura (il pesce è condito con una salsa a base di peperone) e la scavecciatura (una sorta di escabece, che prevede un condimento caldo a base di aceto, rosmarino, aglio e peperone).

Stagionalità

Il pescato è disponibile nel corso dell'anno a seconda della stagionalità: mazzancolle in inverno e primavera, femminelle e calcinelli solo in inverno, cefali, anguille e spigole durante tutto l'anno.

Razza maremmana

Tipologia: Razze animali e allevamento

Questa razza autoctona dalle grandi corna a lira, dal manto con sfumature grigie e straordinariamente robusta ebbe il suo momento di maggior sviluppo tra le due guerre. Anche sul monte Amiata i cavatori utilizzavano i bovi Maremmani per il trasporto del marmo. Con la bonifica e la meccanizzazione agricola la razza andò in crisi, addirittura sfiorò l’estinzione. Ora la situazione sta cambiando e il Presidio sostiene la sua graduale rinascita.
La Maremmana è molto frugale, sopravvive in situazioni difficili ed è allevata solo allo stato brado. Questo spiega la sopravvivenza della figura del buttero, il mandriano a cavallo che segue e guida le vacche.
Da ottobre a marzo gli animali vivono alla macchia in ampi appezzamenti cintati. Passato l’inverno sono trasferiti in pascoli recintati, per sfruttare la produzione foraggera primaverile. A fine maggio si effettua la “merca”, cioè la marchiatura a fuoco dei vitelli di un anno. Ed è in quel periodo che le vacche adulte e le giovenche sono “imbrancate” (in gruppi di 25, 30 vacche per toro) per la monta. All’inizio dell’autunno i tori sono tolti dal branco e le mandrie tornano alla macchia.
L’allevamento brado contribuisce in modo decisivo al benessere animale e alla sapidità e salubrità delle carni. Esiste una ricetta tradizionale per apprezzare al meglio la carne di Maremmana: uno spezzatino fatto con i pezzi più muscolosi e una concia “asciutta”. Si lascia riposare la carne una notte intera con un trito di rosmarino, salvia e un po’ di pepe. Il giorno successivo la si rosola con olio extravergine di oliva, eliminando eventualmente la poca acqua che si forma. Si procede quindi a una nuova rosolatura con un trito di cipolla rossa, sedano, prezzemolo e aglio. Quando la carne tende ad “attaccare”, si unisce un vino rosso di Maremma e il sale. Sfumato il vino, si aggiunge il concentrato di pomodoro e il brodo per ultimare la cottura, unendo, se necessario, altro vino. La preparazione è molto lunga, ma il risultato è eccezionale.

Stagionalità

La carne di maremmana può essere reperita tutto l’anno.

Sfratto dei Goym

Tipologia: Dolci

Questo dolce è forse tra i prodotti più importanti della tradizione ebraica dei comuni di Pitigliano e Sorano, simbolo dell’incontro fra gastronomia ebraica e maremmana. Oggi in questa zona del grossetano non ci sono più prodotti kosher (tranne poche eccezioni), ma rimangono le tracce di una antica e importante contaminazione; tracce disseminate in tutta la cucina locale. Eredità culturale di una storia antica, iniziata a metà del XVI secolo, quando gli ebrei dell’Italia centrale, incalzati dalle persecuzioni dei pontefici e di Cosimo II, granduca di Toscana, cercarono di sottrarsi ai ghetti di Roma, Ancona, Firenze e Siena (in cui fu dato ordine di rinchiuderli), e trovarono rifugio in zone di confine, relativamente isolate, come Monte San Savino, Lippiano e, appunto, Pitigliano.
L’origine dello sfratto è legata alla decisione di Cosimo II Medici, nei primi anni del 1600, di far convergere tutti gli ebrei di Pitigliano in un unico quartiere. Gli ebrei venivano sfrattati dalle loro abitazioni e l’intimazione di sfratto era compiuta da un messo che batteva con un bastone sulla porta della casa, lo sfratto appunto.
Di qui, la forma del biscotto: una sorta di grande sigaro (lungo 20, 30 centimetri e dal diametro di tre centimetri), farcito con un ripieno di noci tritate, miele, scorza di arancia, noce moscata e un involucro molto sottile di pasta non lievitata. Per preparare il ripieno dello “sfratto” si deve inizialmente cuocere il miele, avendo cura di mescolarlo bene, poi si aggiungono gli altri ingredienti. La sfoglia dell’involucro viene fatta impastando farina di grano tenero, zucchero e vino bianco e spennellata di olio. Si ottiene un dolce compatto, dalla forma stretta e allungata e dal ripieno ricchissimo, che deve essere servito in fette sottili.

Stagionalità

Lo sfratto si produce tutto l’anno, ma soprattutto nel periodo natalizio.

 

 

Le informazioni e le citazioni di questo articolo sono tratte del sito ufficiale di SlowFood Italia: http://www.slowfood.it/